Questa è la domanda che si pone Mark Bauerlein (professore d’Inglese all’Emory University ad Atlanta, Georgia) nel suo libro The Dumbest Generation: How the Digital Age Stupefies Young Americans and Jeopardizes Our Future (Or, Don’t Trust Anyone Under 30), Tarcher/Penguin, 236 pp. Bauerlein dice semplicemente che la “Generation Y, età 16-29, è stata modellata profondamente dall’esposizione alla tecnologia del computer, fin dalla scuola elementare”.
Il costo dell’esposizione sopravanza i benefici: i bambini scrivono più che mai online o SMS, ma questo non è il genere di abilità narrativa che serve da adulti. Bauerlein afferma che “Those forms groove bad habits, so when it comes time to produce an academic paper … or when they enter the workplace, their capacity breaks down.”
In altre parole, quel modo di scrivere online crea brutte abitudini che non servono quando si deve scrivere un saggio universitario o per necessità di lavoro. Inoltre, i
siti di “Social networking” possono dare l’impressione di essere al centro dell’universo quando invece non lo si è affatto. Ciò provoca una conoscenza e/o un approccio completamente distorto col mondo. Non si possono replicare le proprie abitudini comunicative (con i messaggini, per esempio).
Secondo Bauerlein, inoltre, la cosa più grave è che ciò “closes people off from a wider engagement with the world” (“taglia fuori le persone dall’impegnarsi più vivacemente nel mondo”).
Che fare, allora? Il rimedio è sempre quello: che i genitori parlino di più con i propri figli, anche senza inseguire per forza grandi scopi di sviluppo intellettuale, che i genitori (e gli insegnanti pure) accompagnino gli adolescenti in mezzo a questo mondo che cambia continuamente, facendo sentire e percepire la propria presenza e disponibilità.
D’altra parte, dovremmo renderci conto di come gli adolescenti di oggi siano in qualche modo “più svegli” di prima, pur con nuove opportunità che noi adulti non avevamo a suo tempo (vedi Gary Small, Center of Aging at the University of California-Los Angeles and co-autore di iBrain: Surviving the Technological Alteration of the Modern Mind). E poi, gli adolescenti sono pur sempre quelli: il fatto è che la tecnologia pare insegnare al nostro cervello maniere diverse di elaborare le cose, cosa che in qualche maniera crea una specie di barriera generazionale.