Perché Internet e il Web 2.0 fanno paura?

Web 2.0 is a formula to kill the middle class and undo centuries of social progress.” In poche parole, il Web 2.0 è una formula per uccidere la classe media e disfare secoli di progresso sociale. A pronunciare queste parole non è uno qualunque, ma Jaron Lanier, americano e precursore dell’andamento tecnologico di Silicon Valley, scrittore e giornalista (scrive regolarmente su Wired), ecc. Attualmente Lanier insegna come “Visiting scholar” al Department of Computer Science della Columbia University di New York e ha pubblicato da poco il libro You are not a gadget: a manifesto. Being Human in a Technological Age, di cui trovate anche un’intervista al link evidenziato.
Lanier appare estremamente critico nei confronti di Internet e del Web 2.0, che specificamente individua come pericolo vero e proprio, se si esprime dicendo che “The Internet has become anti-intellectual because Web 2.0 collectivism has killed the individual voice.” In altri termini, la rete è divenuta anti-intellettuale perché il Web 2.0 – collettivista [probabilmente perché si basa proprio sulla condivisione dei gusti e delle conoscenze/informazioni presentate] – ha ucciso la voce individuale.” Altrove Lanier prosegue utilizzando l’immagine della “poltiglia”: “The strangeness is being leached away in the mush-making process.  (la stranezza, l’ignoto dell’individualità si perde per strada nel processo di ‘frammentazione e mescolamento’ ) e finisce per qualificare tutto ciò come un approccio “anti-human”. Per concludere, Lanier auspica una sorta di “tecnologia umanista” per riaffermare il primato dell’individuo, della verità (possibilmente uccisa dai contributi della massa) e – presumibilmente – ipotizzare un altro complesso espressivo, visto che il mezzo limita il messaggio: “The medium limits the message“, parafrasando McLuhan in negativo.
Cosa dire a questo punto? Indubbiamente questa visione di Lanier è pressoché antitetica a quella proposta da questo mio blog, perché non si ritiene la condivisione delle informazioni e delle conoscenze un elemento negativo, perché il pericolo dell’annullamento dell’individuo non è strettamente correlato alla scomparsa della verità, dei dati oggettivi. Tutto ciò non sembra attuale: per esempio, la prassi del peer-reading (la lettura e recensione di esperti del settore) è ormai normale in campo accademico, visto che prima di accettare lavori per congressi e pubblicazioni (almeno in campo anglo-sassone) si è sottoposti al vaglio.
Nella sua recensione di Lanier apparsa su Il Sole – 24 Ore di ieri, Gianni Riotta prende in esame, invece, i video più cliccati dalla comunità di lettori online di Corriere della Sera e La Repubblica e con un certo tono schifiltoso appare scandalizzato dai gusti della massa (la ragazza che cade sul lago ghiacciato, gli sberleffi, ecc.). Sebbene non detto esplicitamente, per Riotta Internet funzionerebbe da agente scatenante il guitto, lo sberleffo, la cafonaggine urlata. Ci dovremmo chiedere: è Internet a creare la cafonaggine urlata, oppure sono i singoli individui cafoni a diffondere la propria cafonaggine e voglia di sopraffazione? Inoltre: come avviene nei programmi televisivi trash, più si urla e più si viene notati? E’ proprio così, oppure con la scusa dell’insulto si passa alla limitazione dell’espressione?
La massa prima accennata da Riotta è pertanto stigmatizzata e si sottolineano le parole di Lanier: «La massa ha il potere di distorcere la storia, danneggiando le minoranze, e gli insulti dei teppisti online ossificano il dibattito e disperdono la ragione». Le due uniche ragioni plausibili che trovo per giustificare il giudizio di Riotta sono un’evidente tributo alla filosofia individualista dell’economia di mercato propria del giornale degli imprenditori, da un lato. Dall’altro lato, credo che Riotta sia alquanto scottato dalle reazioni della rete alle sue parole denigratorie verso Beppe Grillo (che l’aveva precedentemente aspramente criticato) l’informazione condivisa in rete, dall’attacco della rete Internet alle posizioni corporative degli editori di giornali e media in genere.
Insomma, un personalismo che non fa bene all’informazione, a volte mascherato da un’esaltazione accademica della libertà di stampa e del neutralismo cialtrone. Viste le relazioni di dipendenza fra alcuni giornalisti e i vari partiti, centri di potere politico-economico, ecc. esistenti in Italia, non credo che i Lanier de noantri possano accampare grandi meriti, specie quando validissimi ricercatori ed esperti sono costretti ad emigrare perché non possono pubblicare, insegnare all’università, scrivere, operare, ecc. a causa proprio delle ristrettezze imposte da chi non condivide né potere, né informazioni.

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